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65. Scorpione

Quando mi ha chiesto di che segno fossi ho sentito un brivido, uno di quelli che ti attraversano come un autobus notturno che passa troppo veloce. Gli ho detto Scorpione, ma quasi sottovoce, come quando dici il nome di qualcuno che non vuoi evocare.E lui ha fatto quel gesto di annuire. Le persone annuiscono sempre, anche quando non sanno nulla di te. “Ah, si capisce.” Io mi sono chiesto cosa si capisce, esattamente. Forse che non dormo mai bene, forse che inciampo nei miei stessi pensieri, forse che a volte sparisco da tutte le conversazioni come fanno certi animali quando arriva l’inverno. Forse non si capisce un cazzo e basta. E mentre lo dicevo mi è tornato in testa quando ero bambino, quando stavo alla finestra cercando le costellazioni.Gli adulti mi dicevano che Dio abitava lì, da qualche parte, tra le stelle e le nuvole. E io cercavo, come si cerca una risposta che fa più paura della domanda. Stavo lì, con il naso all’insù, chiedendomi dove cazzo fosse, perché non si facesse vedere.Poi sono cresciuto e Dio, da qualche parte, l’ho perso. Forse sotto un temporale, forse tra due cartoni di pizza. Ma tu ai segni ci credevi, mi dicevi che nello Scorpione ci sono abissi, ferite e ritorni. Io dissi solo che al nome di Cancro pensavo solo a un tumore. Detto così, netto, senza chiedere scusa. E in quella frase c’era più sincerità che in tutte le costellazioni che ci disegnavamo addosso. Aveva una famiglia rotta: suo padre era Bilancia, con condanne a falso in bilancio, e suo fratello, per mangiare, da un annetto spacciava. Dicevi che era tutto scritto, che il mio segno parlava prima di me, che Scorpione significa profondità, trasformazione, dolore che diventa altro.io pensavo solo che il dolore resta dolore, anche quando lo chiami con un nome più poetico. Il giorno in cui sono nato avevo Saturno contro e questo, nella vita, chiude quasi tutte le porte. Era già tutto previsto.Le dissi:“Io non ci credo.” Lei:“Tipico Scorpione.”


Dattero è morto, evviva Dattero